Non sorge alcun fiore
sugli estinti, qualora non sia onorato delle
lodi umane e di pianto affettuoso.
-Ugo Foscolo, da I Sepolcri (1806)-
Il 2 Novembre di ogni anno si celebra la “commemorazione dei defunti”, più volgarmente ricordata come “festa dei morti”. E’ in quest’occasione particolare che la Morte si rivela semplicemente per ciò che è: evento degli altri.
Il prof. Umberto Galimberti, autore del libro Il corpo. Antropologia, psicoanalisi, fenomenologia, argomenta in proposito:
Come alienazione totale, come definitiva vittoria dell’altro, la morte è dunque ciò che propriamente non ci appartiene, è ciò che il nostro corpo non incontra mai, ma semplicemente subisce dall’esterno, come si può subire quell’evento che ci trasforma in pura esteriorità, senz’altro significato che non quello che ad altri piacerà darci. Altri ci seppellisce, altri ci ricorda, altri ci dimentica. La nostra morte è un evento degli altri.
Secondo l’autore, dopo la morte, ci “scopriamo come futura preda degli altri”, nel momento in cui realizziamo che:
“Con la morte, vivo nella memoria dell’altro, e non più io, ma altri stabiliranno il senso della mia vita. Se poi gli altri mi lasceranno nella mia indifferenza, mi faranno semplicemente ri-morire. (…)”
Per comprendere la morte ho bisogno dell’altro, la cui assenza è inesorabilmente attestata dal non senso che si diffonde sulle cose che lascia: la terra che coltivava è ancora lì, ma nessuno potrà ripetere l’ordine delle sue colture e il senso che la sua presenza esercitava; i suoi attrezzi nessuno li ha distrutti, ma nessuno li potrà usare come lui li usava, la sua casa potrà essere abitata da altri, ma altri diffonderà un senso che non era il suo. Le cose restano, ma solo per testimoniare che un certo loro impiego, che forniva loro un certo senso, non c’è più”.
Quindi spetta sempre e solo agli altri, a quegli “altri significativi” che tanto ci hanno circondato in vita, farci rivivere nella memoria, grazie al nuovo senso che attribuiranno alla nostra “vita”, dopo il verificarsi della morte esteriore.
Se la morte è evento degli altri, e “ri-nasciamo” nel momento in cui solo altri stabiliranno il senso della mia “vita” dopo la morte, a nessuno è dato di sapere quando si manifesterà “la grande consolatrice”. Per questo, come scrive Galimberti, la morte è sempre imprevista:
“So che si nasce e che si muore, ma non posso conoscere la mia nascita e la mia morte. Per questo della morte si parla sempre in terza persona, come di un evento oggettivo e mai come di una propria esperienza. (…) Per questo con la morte i corpi cambiano nome e diventano salme, cadaveri, (…) il cadavere, a differenza del corpo, “non è più in situazione (Sartre); la sua espressione stupefatta, serena, discreta, non ha più nulla di psichico, perché non è più corpo che vive, ma semplice vestigio condannato ad esprimere il puro passato di una vita che nessun futuro potrà più riprendere. Per questo, di fronte al cadavere, cessa ogni rancore”.
In definitiva, ecco cosa avviene con la morte. “la separazione del corpo dal mondo, per cui il mondo non esiste più come luogo in cui il corpo si proietta e si progetta, ma solo come terra che irrimediabilmente lo ricopre”.
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